Il volto stanco della società

11.06.2025

Domenica scorsa ero sul balcone di casa e improvvisamente ho sentito delle urla provenire dalla strada sottostante. Era giorno di mercato. Mi sono affacciato e ho visto due uomini di mezza età che erano venuti alle mani (fortuna che li hanno divisi), il tutto perché uno aveva urtato leggermente l'altro con la bici. 

Poco dopo una "signora" in bici ha apostrofato con parole pesanti e con il digitus impudicus (detto comunemente "dito medio alzato") un anziano che le aveva attraversato la strada secondo lei troppo lentamente tanto da farla frenare.

Ogni giorno, nelle file alle Poste, tra le corsie del supermercato, nel traffico urbano e persino nei commenti sui social, si avverte un filo continuo di tensione sociale. La rabbia sembra essere diventata una componente strutturale del vivere quotidiano. Non si tratta solo di episodi isolati ma di un clima diffuso, fatto di sguardi duri, risposte brusche, insofferenza reciproca. I rapporti umani stanno cambiando in peggio, e questo cambiamento racconta molto più di quanto sembri.

La crescente aggressività nelle interazioni ordinarie non è solo una questione di "maleducazione" ma piuttosto il sintomo visibile di un malessere profondo, di un disagio sociale sedimentato. Quando le persone si sentono costantemente sotto pressione - economica, psicologica, esistenziale - è facile che le tensioni si manifestino anche nei luoghi pubblici, laddove il confronto con l'altro diventa inevitabile.

Le incertezze economiche, il precariato lavorativo, il sovraccarico informativo, l'erosione dei legami comunitari e il senso crescente di impotenza di fronte alle grandi trasformazioni del mondo (crisi ambientali, conflitti, polarizzazione politica) creano una miscela esplosiva, e così la società diventa una sorta di pentola a pressione in cui ogni interazione quotidiana può trasformarsi in una valvola di sfogo.

Un altro aspetto rilevante è la perdita di fiducia reciproca tra i cittadini. In sociologia si parla di "erosione del capitale sociale", quel tessuto di fiducia, norme condivise e solidarietà che tiene insieme una comunità. Oggi questo tessuto si sta sfilacciando. Il senso civico cede il passo alla frustrazione, e la gentilezza – un tempo segno di buona educazione – sembra quasi un lusso fuori luogo, o peggio, un segno di debolezza.

Quando questo capitale si erode, ognuno percepisce l'altro più come una minaccia che come una risorsa, e così la cortesia viene vista come debolezza, la pazienza come perdita di tempo e di conseguenza prevale l'atteggiamento difensivo, se non apertamente aggressivo. A ciò si aggiunge un individualismo competitivo sempre più marcato, che spinge le persone a sentirsi sole nel perseguire i propri obiettivi. In una società che enfatizza la performance e il successo personale, l'altro diventa spesso un ostacolo anziché un alleato, e nelle file del supermercato o alle Poste, questo si traduce in sguardi torvi, parole taglienti e insofferenza.

La percezione che le istituzioni non siano più in grado di fornire risposte concrete contribuisce ad accrescere questo stato di frustrazione latente. Servizi inefficienti, burocrazia esasperante, assenza di tutela e ascolto, generano un senso di abbandono che si riversa poi nei rapporti interpersonali. Se il cittadino si sente costantemente ignorato, svilito o umiliato, tenderà a replicare questi modelli nei rapporti con gli altri. Non aiuta il fatto che molti servizi pubblici siano diventati luoghi di esasperazione più che di assistenza. Le lunghe attese e la burocrazia asfissiante contribuiscono ad alimentare un senso di abbandono. Le istituzioni, quando percepite come assenti o inefficaci, diventano un ulteriore fattore di disgregazione sociale, e allora ci si difende come si può: con il muso duro, con la voce alta, con la chiusura.

Non basta invocare il "ritorno alla buona educazione", serve una riflessione più profonda sul modo in cui costruiamo (o decostruiamo) le relazioni sociali. Serve ripensare il valore del rispetto non come gesto formale ma come riconoscimento reciproco della comune vulnerabilità, perché dietro ad ogni risposta sgarbata c'è spesso qualcosa che meriterebbe ascolto.

Forse, più che arrabbiati, siamo stanchi. Stanchi di non essere visti, ascoltati, rispettati. Ma se questa stanchezza si trasforma solo in aggressività, non faremo che peggiorare la condizione che ci ha portati fin qui. In fin dei conti, la rabbia collettiva che oggi si respira nei piccoli gesti quotidiani è lo specchio di una società che chiede attenzione, cura, visione. E soprattutto umanità.