Proviamo per una volta a guardare gli adulti

21.11.2025

Cinque adolescenti accoltellano un coetaneo lasciandolo invalido. E come sempre scatta il copione: talk show indignati, slogan sulla tolleranza zero, richieste di più controlli e appelli contro la violenza. È un rituale che produce rassicurazione ma non comprensione. E soprattutto non ci avvicina alle radici del problema, perché questo episodio non arriva dal nulla: è l'ennesimo segnale di un processo sociale lungo e profondo.

In Italia continuiamo a leggere la violenza giovanile come un atto di devianza individuale, quando le scienze sociali ci hanno sempre mostrato che è un fenomeno collettivo con cause strutturali. È il sintomo della crisi delle agenzie tradizionali di socializzazione — famiglia, scuola, comunità — che da anni hanno perso la capacità di orientamento, controllo e cura.

Quando gli adulti arretrano, il gruppo dei pari riempie il vuoto. E in Italia questo arretramento è diventato un tratto stabile del nostro tempo. Le scuole sono state indebolite dalle mancanze croniche di personale e risorse; le famiglie sono provate dalla precarietà economica e dall'isolamento; i territori mancano di spazi di aggregazione e di luoghi dove costruire del capitale sociale. Questo scenario porta i ragazzi a crescere in un ambiente che produce "vuoto educativo": un contesto in cui la solitudine relazionale non è più un'eccezione ma diventa la condizione di base.

Dentro questo vuoto si sviluppa una cultura giovanile segnata dalla necessità di esistere attraverso la forza, la visibilità e la capacità di intimidire. È l'espressione di una maschilità giovanile ipercompetitiva, quello che la sociologia definisce "mascolinità egemonica": un codice informale che vieta ogni vulnerabilità e premia la durezza.

In questo scenario la violenza diventa un linguaggio identitario, un biglietto da visita, un mezzo per ottenere riconoscimento tra pari. Allora il coltello non è solo un'arma, è un simbolo. Amplifica la presenza di chi lo impugna, fornisce un surrogato di potere a identità fragili e colma vuoti che nessun adulto ha aiutato a colmare.

Il cosiddetto "branco", cioè il gruppo quando assume caratteri tribali, svolge un ruolo sostitutivo della comunità educante. Funziona come micro-organizzazione normativa, con rituali, gerarchie e codici propri. Ma a differenza delle istituzioni educative, non trasmette valori, legittima invece la forza al posto della responsabilità, l'appartenenza al posto del rispetto, l'azione al posto della riflessione sulle conseguenze.

Per questo i cinque adolescenti non rappresentano solo un caso di cronaca nera: sono il prodotto di un tessuto sociale che abbiamo lasciato sfaldarsi. Il vero scandalo non sta esclusivamente in ciò che hanno fatto — pur gravissimo — ma in ciò che come società non abbiamo più saputo garantire: continuità educativa, adulti presenti e credibili, spazi pubblici che generano relazioni, occasioni di partecipazione e di crescita.

La domanda da cui spesso fuggiamo è semplice: quanti anni di disattenzione servono ancora per capire che la violenza giovanile non è un incidente, ma un segnale strutturale del malfunzionamento della nostra comunità? Per quanto tempo ancora continueremo a occultare le cause dietro il velo rassicurante della condanna morale?

Finché leggeremo episodi come questo come fatti isolati, continueremo a ignorare la società che li produce. La violenza giovanile non nasce nel gesto del singolo: è il frutto collettivo di una comunità che ha smesso di educare, di presidiare, di esserci. E quando la comunità abdica, restano solo i ragazzi — soli — a inventarsi le regole del vivere insieme. Con conseguenze che oggi arrivano puntuali a presentarci il conto.