Teatro

(Un uomo sulla scena, seduto su una panchina. Un giornale sportivo in mano. Lo guarda, sospira, poi alza lo sguardo e parla al pubblico)

Ah, la vita… Un viaggio su un tapis roulant impazzito: tu corri, corri, cerchi di stare al passo, ma lui accelera. Un giorno sei sulla cresta dell'onda, il giorno dopo – pluff! – sott'acqua. Ma non morto, no. Peggio. Dimenticato.

Prendiamo Cappellini. Il centravanti dell'Inter. Quand'ero ragazzino era il mio idolo assoluto. Non so quanto avrei pagato per incontrarlo, per stringergli la mano e dirgli: «Cappellini, sei un mito!» Avrei venduto mia nonna per un suo autografo.

Oggi non saprei neanche cosa dirgli. Potrei invitarlo a cena, discutere della difesa a zona davanti a un piatto di penne all'arrabbiata… Oppure invitarlo al bar per un caffè: «Cappellini, ti offro un caffè, così ricordiamo insieme i bei tempi…» Ma lui non sa chi sono io, e io, in fondo, non so più chi sia lui. Ora Cappellini è come quei calzini spaiati che trovi in fondo al cassetto… li guardi e pensi: un mistero!

Il calcio va veloce, la memoria ancora di più. Il mondo dello sport è crudele: oggi sei il re dello stadio, domani neanche il tuo cane ti riconosce. La fama dura meno della batteria di uno smartphone.

(Sfoglia il giornale, scuote la testa)

E così va il mondo: ti acclama, ti celebra, ti mette in copertina. E poi? Poi ti archivia come le enciclopedie cartacee. Sì, sì, ci sono ancora, ma chi le apre? C'è Wikipedia!

La fama è una torta che si mangia in fretta. Prima ti servono una fetta abbondante, e tu pensi: «Che bello, durerà per sempre!» Poi un giorno ti accorgi che della torta non è rimasta neanche una briciola.

Mi è successo anche a me, sapete? Anch'io una volta ero importante. Non che io sia mai stato un centravanti dell'Inter, intendiamoci, ma una volta ero "quello lì". Dicevano: «Oh, guarda chi c'è! Grande! Sei un mito!» E ora? Ora mi trattano come un vecchio telecomando: mi guardano, premono qualche tasto, poi mi lasciano lì perché non funziona più. Ora dicono: «Scusi, lei chi è?»

Pensavo che la mia carriera fosse eterna, invece è durata meno di una dieta dopo Natale.

(Sorride amareggiato)

E il peggio non è che gli altri ti dimenticano, no. Il vero dramma è quando TU smetti di riconoscerti. Ti guardi allo specchio e pensi: «Tu ed io ci siamo già visti… ma dove?»

(Si guarda intorno, pensieroso, poi si schiarisce la voce e riprende)

Il successo è come la moda: oggi porti pantaloni larghi e sei figo, domani li sostituiscono con quelli attillati, e tu rimani lì con il tuo guardaroba fuori tempo.

Ricordate il Tamagotchi? Tutti ne avevano uno. Per un anno abbiamo creduto che la vita non avrebbe avuto senso senza un animaletto digitale da nutrire. E ora? Ora se ne trovi uno in un cassetto, pensi: «Ma davvero perdevo tempo con queste stronzate?»

E così anche con le persone. Un giorno sei il centro del mondo, ti applaudono, ti cercano, ti chiamano. Il giorno dopo non sanno nemmeno più come ti chiami.

(Aggrotta le sopracciglia, fissa un punto indefinito)

Ed è buffo, perché anche noi facciamo lo stesso. Quanti idoli ho avuto? Quanti poster ho appeso? Quanti ne ho tolti senza nemmeno accorgermene? Da ragazzino, il muro della mia camera era un sacrario: calciatori, attori, cantanti… Poi un giorno li ho guardati e ho pensato: «Ma chi sono questi?» E li ho staccati tutti. E il muro è rimasto vuoto.

(Si ferma un attimo, si guarda le mani)

Ecco, la vita fa così con noi. Ci tiene appesi, ci mostra in bella vista, ci mette sotto i riflettori. E poi, un giorno, ci stacca dal muro senza nemmeno dire perché.

(Sorride amaramente)

Magari, tra qualche anno, un ragazzino troverà un vecchio giornale con la mia faccia sopra, lo guarderà, sospirerà e dirà: «Chissà chi era 'sto tizio?»

E così va il mondo: ti acclama, ti celebra, ti mette in copertina. E poi? Poi ti archivia.

(Si alza lentamente, prende il giornale, lo piega con cura, poi lo lascia sulla panchina, come un piccolo tributo a chi è stato e non sarà più. Si incammina verso il buio)


SIPARIO

Una poltrona con a lato un tavolino sul quale sono appoggiati alcuni libri e una radio. 

Una finestra davanti.

Un uomo è seduto sulla poltrona e sta leggendo un libro. Smette di leggere, posa il libro sul tavolino, si alza dalla poltrona, accende la radio e si avvicina alla finestra.

La radio sta trasmettendo la notizia di una missione su Marte.

L'uomo ascolta guardando fuori dalla finestra.


RADIO: La prima navicella spaziale automatica terrestre ha completato il suo tragitto di 471 milioni di chilometri e ha raggiunto Marte.

Ora inizierà la vera e propria missione scientifica avente come priorità la ricerca di vita biologica. Il cratere Jezero è ritenuto il luogo ideale per il prelievo di campioni. Infatti, secondo gli astronomi, miliardi di anni fa questo bacino ampio 45 chilometri era pieno d'acqua. Inoltre la navicella porta con sé il primo drone dotato di telecamere ad alta risoluzione che sorvolerà il cielo di Marte.

Due future missioni, attualmente in fase di pianificazione, vedranno la collaborazione tra la Nasa e l'Agenzia Spaziale Europea.

L'uomo si avvicina alla radio.

Una sfida ambiziosa che punterà non solo a portare l'uomo sul Pianeta Rosso ma anche a dare il via a degli studi per una futura colonizzazione del pianeta…

La spegne.

Si avvicina alla finestra e guarda fuori.

Alessio... (sorride). Oggi Marte è così vicino... più vicino del nostro Pianeta Kasios.

Ora che guardo il cielo da questa finestra, immagino il cratere Jezero, pieno d'acqua, pieno di vita. Immagino gli astronauti… Anche noi eravamo astronauti (sorride), astronauti che sfidavano la paura e il destino.

Si gira e si rivolge al pubblico.

Ci sono cose che non si cancellano. Passano gli anni ma loro restano lì. Arrivano senza bussare. Ti afferrano, ti stringono e ti lasciano senza fiato.

Ti convinci che il tempo li ha sbiaditi, ma è solo una menzogna che racconti a te stesso. I ricordi dolorosi non si dimenticano, sono l'inchiostro con cui la vita ci scrive addosso.

È curioso come il destino ci faccia camminare nel passato mentre il futuro avanza. Una navicella verso Marte, mentre qui sulla terra ripariamo i nostri frammenti.

(Si ferma per qualche secondo, come se riflettesse, poi riprende)

«Ci vorranno anni, soldi e forza» dicevano, ma il tempo che si era fermato quella notte, iniziava lentamente a ripartire. Finalmente era stata ricostruita: più bella e più sicura.

Mentre entravamo per la prima volta nella nuova casa, osservavo alcuni capelli grigi che si erano posati delicatamente sulle tempie di mio padre. Lo sguardo stanco ma felice di mia madre mi perforava il cuore.

Cercai di scorgere da lontano la casetta di legno in cui avevamo abitato per tanti anni, forse anche a lei mi ero un po' affezionato, e mi venne un sorriso nel guardare il Pianeta Kasios che si era trasformato in un bellissimo paese.

«Mi raccomando, state lontani dalle reti!» - barriere con cui avevano imprigionato il paese diventato un mucchio di macerie.

Non dovevamo assolutamente entrare in quella che i grandi chiamavano "zona rossa", i nostri genitori ce lo ripetevano ogni giorno, era pericoloso, ma di nascosto io e Alessio passavamo attraverso un foro della rete per immaginarci in un film di fantascienza.

Pianeta Kasios lo avevamo chiamato, e noi eravamo due astronauti in missione segreta.

Nessuno si era accorto di quel buco che ci permetteva di entrare in un'altra dimensione. Era il nostro segreto. Ci davamo appuntamento ogni giorno prima di fare i compiti, un'oretta di esplorazione prima che le nostre madri ci chiamassero.

Entravamo in punta di piedi e avanzavamo lentamente cercando di non far rumore. In un pianeta nuovo non si può mai sapere cosa si può incontrare.

C'era un silenzio innaturale. Tutto era fermo, immobile, e se un sasso rotolava da un mucchietto di macerie, subito portavamo l'indice dritto davanti al naso per ricordare all'altro che dovevamo stare in silenzio, altrimenti ci avrebbero scoperto.

Avevo notato il vetro rotto della finestra del bar, dove gli anziani erano soliti trascorrere il tempo a giocare a carte e a parlare di calcio e di politica; mi affacciai e vidi i tavolini coperti di calcinacci.

La vetrinetta delle paste che mio padre portava a casa ogni domenica era vuota e impolverata, c'erano solo alcune bottiglie di liquore dietro al bancone che avevano resistito alle scosse e una vecchia coppa vinta in qualche torneo di briscola.

Poco più in là il portone della nostra scuola chiuso con due assi di legno messi a ics: ci fermammo e ci guardammo in faccia. Era comunque più bella di quella nuova di legno. Sembrava una nonna che ci guardava con dolcezza, anche se l'età e la salute cagionevole l'avevano ridotta in quello stato.

Alzai lo sguardo e vidi che dalla scritta sopra al portone mancava la emme, caduta insieme al pezzo di muro sottostante: la scritta scuola ele entare mi fece per un attimo sorridere.

Passammo vicino alla casa di Alessio. Ogni volta che la vedeva diventava più triste, perché la sua, a differenza della mia, sembrava un dente cariato, tagliata in due che si vedeva la sua cameretta con il letto ancora sfatto e il tavolino dove faceva i compiti invaso dai mattoni.

Non capivo perché la nostra era ancora in piedi ma non potevamo entrarci; avevano portato via i mobili e siccome nella casetta di legno non ci stava tutto, ne sistemarono alcuni da zia Elvira che viveva sola.

Quel senso di sicurezza e di pace che mi trasmetteva il paese in cui ero nato, improvvisamente era svanito. Mi mancava il sorriso della gente che non era più lo stesso, le feste all'aria aperta, l'odore delle castagne arrosto che si sentiva in autunno passando per le vie. Tutto era più triste, anche le montagne intorno sembravano sole e bisognose di cure.

I turisti non venivano più e quei pochi che passavano raramente si fermavano, al massimo si sporgevano dai finestrini dell'auto per fare qualche foto alle case sventrate per poi magari mostrarle agli amici.

In tutti quegli anni di attesa, solo la natura non si era mai stancata di farci compagnia: l'esplosione delle stagioni ci annientava, erano imperi che nascevano e ammutolivano lo sguardo, facevano sanguinare le ossa, scandivano il tempo che passava con il polline delle clessidre.

Quando la terra cominciò a tremare mia madre faceva il cruciverba. Due forti scosse come se stesse scoppiando qualcosa. Tutti fuori dalle case che vibravano. Anche la strada vibrava.

Le scosse non si fermavano nonostante le preghiere. Improvvisamente si era bloccata la vita. Carabinieri, Vigili del Fuoco, Protezione Civile… Tutti fuori tra urla e lacrime, sirene di ambulanze e disperazione.

Fuori c'era l'inferno.

L'uomo si siede sulla poltrona e accende la radio.

RADIO: schhhhh…


SIPARIO